T2425EN Logo RGB      

 

In viaggio di lavoro in Russia, il presidente Taddei Elmi ha affidato la presidenza della serata al vice Rodolfo Cigliana  che ha ricordato la situazione delle forze armate italiane alla vigilia dell’armistizio e il loro subitaneo sfaldamento nell’abbandono seguito alla fuga del governo e del re da Roma.

Tra quei milioni di militari il nostro Giovanni Brandini, testimone degli avvenimenti  dall’arrivo dei tedeschi nella sua caverna al rientro fortunoso a Firenze.

Ma Giovanni ha coraggiosamente affrontato anche le motivazioni che condussero all’8 settembre, la sensazione che la guerra fosse ormai perduta. Già a Bologna, nel 1941-42, Giovanni aveva visto le sue attenuarsi le sue “velleità di combattente …dopo aver parlato con dei feriti che tornavano dal fronte Greco Albanese conosciuti in un ospedale di Bologna dove venni ricoverato per un piccolo infortunio.

Mi resi perfettamente conto che le nostre forze armate non erano pronte ad affrontare una guerra che con l'ingresso della Russia e degli Stati Uniti, sarebbe diventata lunga e difficile considerata la sproporzione delle forze in campo”. Eppure le cose continuavano anche per quel senso dell’onore che un giovane “arruolato volontario pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940, animato da sentimenti patriottici comuni a tanti giovani nati e cresciuti durante il fascismo” manteneva ancora quasi intatto. Da qui la difficoltà della scelta cui dal 9 settembre si trovò ad affrontare.

Come per altri anche per Giovanni le cose accaddero in fretta: quando fu chiaro che i tedeschi li avrebbero trattenuti, con due amici prese la fuga dirigendosi verso casa. Ma parallelamente il “caso di coscienza era quello di tradire un alleato”.

Qui la testimonianza di Giovanni è preziosa, sincera e significativa: “La logica avrebbe voluto che chi come me erano stati ammiratori sia del Fascismo che dei Tedeschi con i quali avevano condiviso da alleati una lunga guerra, si schierassero dalla loro parte, ma siccome tutto faceva presumere, e per i più una certezza, che la guerra si sarebbe conclusa con una disfatta, in molti è prevalso il desiderio di estraniarsi dalla vita militare e rientrare nella vita civile. Io sono stato tra questi ed ho preferito correre qualche rischio non presentandomi, come avrei dovuto, alle autorità preposte per scegliere se entrare a far parte delle milizie fasciste o essere inviato a lavorare in Germania. L'alternativa era o nascondersi o entrare a far parte di brigate partigiane. Io preferii sparire per diversi mesi rifugiandomi in un posto sicuro fuori Firenze che tra l'altro mi dette la possibilità di prepararmi a molti esami universitari che dovevo recuperare.

Ho sempre rispettato quei giovani che si sono dati alla lotta partigiana ma rispetto anche coloro che per coerenza hanno rispettato gli ideali in cui hanno creduto e sono rimasti al fianco dei tedeschi. Per tre mesi sono stato in un rifugio che ritenevo sicuro per lasciar passare la burrasca e poi decidere il da farsi e questa si è rilevata la scelta giusta perché ho potuto ancora rendermi utile per scopi civili per la mia Città rimasta per lungo tempo sotto l'occupazione tedesca ma con la necessità di amministrarla”.

Assunto dall'Unione Commercianti di Firenze Giovanni poté contribuire al sollievo della popolazione, trasportando e reperendo carbone e legna. Il racconto di Giovanni ha innestato un significativo dibattito che – dopo l’intervento di Luigi Cobisi – è proseguito con gli interventi di Rodolfo Cigliana, Ernesto Failla – altro testimone dell’epoca – e Marcello Tredici.

Ma prima di riferire su altri aspetti è opportuno ricordare quanto ha detto della gioventù dell’epoca Giovanni Brandini all’inizio del suo racconto. Non volendo che le sue “parole fossero fraintese ed interpretato come apologia del fascismo e del nazismo” Giovanni ha invitato quanti “interessati a conoscere i veri sentimenti che animavano ed anche turbavano i giovani in quel momento” a ricordare con sincerità che “solo in momenti successivi quando sono venuto a conoscenza di tanti fatti orribili perpetrati dai tedeschi e conosciuta la vera libertà ho avuto ripensamenti che mi hanno convinto che questa è impagabile e va conservata anche a costo di sacrifici”.

Attraverso le vicende dell’8 settembre, dunque, una generazione è divenuta più libera e consapevole al di là dei tragici fatti seguiti a quella data e che – come ha ricordato Ernesto Failla – hanno coinvolto anche Firenze, nelle strade stesse che oggi percorriamo per venire alla riunione del club. Nel portare le impressioni di una generazione successiva Luigi Cobisi ha espresso gratitudine “a Giovanni per aver raccontato pubblicamente la sua storia dell’8 settembre. Poter ascoltare come visse quei giorni un testimone diretto è un grande privilegio che condividiamo con le storie di tanti altri di noi, molti qui presenti, che ci potrebbero (e forse potranno questa sera stessa) integrare quanto abbiamo sentito. E tuttavia è comune negli storici la sensazione che la memorialistica sulla II Guerra Mondiale sia talmente copiosa da impedirci di vederne gli esiti su di noi.

E d’altra parte abbiamo un grande bisogno di ricordi perché solo con loro possiamo tentare una risposta ad alcune domande”. Sono quelle che ha posto Rodolfo Cigliana aprendo il dibattito: - I problemi dell’Italia contemporanea sono figli dell’8 settembre? - Fu allora davvero che si ruppe il silenzio dei giovani innanzi i loro padri e con esso divennero adulti e, paradossalmente, liberi? - Che significa decidere, in un istante, della propria vita, intendo dire, decidere da soli, e basta? Luigi ha seguito un’analisi personale che ha ricordato le ambiguità del governo di allora, avvicinandone il linguaggio del “detto – non detto” a quello dei poteri di oggi, in un’Italia sempre troppo ricca di pericolose sfumature.

Nello stesso tempo il crescere improvviso dei giovani di allora posti davanti a una disfatta senza precedenti rappresenta una fondamentale tappa dello sviluppo successivo della Nazione. “Ciò che atterrisce – ha sottolineato Luigi Cobisi - è la roulette della vita, la sua precarietà assoluta” che indica come “le parole di allora sono ancora una volta le stesse di oggi. Ho detto precarietà. Parola modernissima, che indica non avere alcuna certezza. Chi era nato sotto il fascismo credeva quel regime immortale e ne confondeva le parole d’ordine con l’amor di patria. Ecco il senso dell’onore che si scontra con la necessità di sopravvivere. L’8 settembre mette a nudo queste due attualità antitetiche. Ci fu dunque chi tornò a casa e chi rimase coi tedeschi, chi andò in montagna e chi si nascose in attesa di tempi migliori, chi sparò e chi morì. Ciascuna di queste decisioni merita oggi il massimo rispetto.

Che avremmo fatto noi, al loro posto? Nessuno può dirlo ma se oggi tutto ci appare incerto, direi appassionatamente incerto, forse lo dobbiamo anche a quelle scelte dei nostri padri nel lontano 1943. Fu chiaro a tutti e resta nel DNA nazionale che è inutile sperare in castigamatti capaci di risolvere ogni cosa, inutile sperare in ideologie caduche o in armi segrete risolutive. Ogni cosa invece va affrontata, talvolta troppo in fretta ma non c’è altro metodo se non valutare e agire. Il mazziniano “Pensiero e azione”, tante volte ricordato in quest’anno del 150° dell’Unità d’Italia era anche lì, negli istanti decisivi dell’8 settembre ma – ecco la risposta alla nostra domanda – è ancora qui con noi, giorno dopo giorno. Non più per deluderci, perché le grandi tribolazioni dei nostri padri ce lo insegnano: decidere per il meglio e agire con fiducia. Vorrei trarre da questo la speranza che anche i tragici fatti dell’8 settembre siano serviti a renderci tutti più consapevoli, soli, magari ma – pian piano – capaci di dipanare i guai e fare di una fuga istintiva l’inizio di un nuovo cammino”.